di Mauro Mellini da www.giustiziagiusta.info
Cercando una parola, un aggettivo, che meglio, o, almeno, con maggiore approssimazione, definisca il male oscuro della giustizia italiana, quello, per intenderci, da cui derivano tutte le incongruenze, le deficienze, le prevaricazioni e gli abusi, ci è accaduto di scegliere, ma meglio sarebbe dire, di imbatterci, in un aggettivo: “deviata”. Termine non nuovo anche per ciò che riguarda malefatte e malformazioni di istituzioni. Se ne fece largo uso, a proposito e, magari, ancor più a sproposito, con riferimento ai Servizi di Sicurezza “deviati” ed anche della “Massoneria deviata”. Per questo e per molti altri motivi (pensiamo al sostantivo “devianza” ed alla contiguità logica con “eresia” etc. etc. ed alla terribile accusa di “deviazionista” che significava morte nei regimi comunisti) non è che possiamo dircene entusiasti. Ma meglio d’ogni altro, tale aggettivo può evocare e indicare la deformazione di un organismo consistente nella sua destinazione ad altre finalità che non quelle che gli sono naturali.
La giustizia italiana non è “deviata” perché un numero più o meno rilevante e significativo di procedimenti, di inchieste, di sentenze e di provvedimenti vari è adattato ingiustamente, a causa di scopi e finalità perversi di chi li promuove ed adotta. Né può dirsi deviata per uno scadimento della moralità del decidere che si sia manifestato in molti magistrati.
La “devianza” della giustizia italiana è fenomeno assai più complesso, riconducibile al prevalere, in verità, non solo tra i magistrati, di teorie circa i compiti ed i fini della giurisdizione.
“Deviata”, si può dire, è anzitutto la cultura cui si rifà tale teoria e tutto l’atteggiamento della magistratura (come corpo e corporazione, nelle tendenze in essa prevalenti) ma anche in una parte rilevante della classe politica e degli ambienti intellettuali.
D’altra parte a percepire tali atteggiamenti ed a constatare il perseguimento di tali finalità, non siamo solo noi. Andate a consultare la rivista della corrente Magistratura Democratica degli anni ’70 e vi troverete teorizzato l’”uso alternativo della giustizia” ed altre apparentemente meno esplicite e conducenti proposizioni. Se ne parla meno oggi, che quella corrente di pensiero della magistratura associata può considerarsi egemone. Se ne parla di meno, perché, in effetti, quelle teorie hanno avuto realizzazione, essendo state più o meno consciamente accettate dalla magistratura ed anche dalle altre istituzioni dello Stato.
Compito della giustizia, dei giudici, dell’apparato giudiziario è, nello Stato moderno, quello di applicare le leggi (che spetta al potere legislativo emanare) ed accertare i fatti che ne condizionano l’applicazione. Spetta al potere esecutivo amministrare la cosa pubblica compiendo quelle scelte che sono necessarie per realizzare opere e servizi necessari alla collettività, etc.
Ora secondo la teorizzazione cui si è fatto cenno, ma ancor più, per quel che a noi più interessa, nell’atteggiamento e nella realtà della giustizia italiana, il compito ad essa assegnato secondo la classica divisione dei poteri cui sopra abbiamo fatto cenno, è considerato “riduttivo”. Sostengono i magistrati, che potremmo definire di scuola “pangiurisdizionalista”, che compito della giustizia e della loro corporazione che l’amministra, sia quello di perseguire “obiettivi di promozione sociale”. In particolare, per ciò che riguarda specificamente la giustizia penale, essi sostengono che compito della giustizia sia quello di condurre “campagne” di volta in volta contro varie forme di criminalità (terrorismo, mafia, corruzione, pedofilia, corruzione sportiva, abusivismo edilizio etc. etc.) per “sconfiggere” tali manifestazioni di patologia sociale. Interpretazione, applicazione della legge, accertamento dei fatti oltre ogni ragionevole dubbio per poter rettamente applicare le leggi sono in questa ottica, anziché un obiettivo primario ed esclusivo, un “passaggio”, più o meno un dato strumentale delle operazioni “strategiche” da realizzare con la legge, ma anche altre.
Naturalmente nessun magistrato ammetterà esplicitamente che la strumentalità di una qualsiasi sentenza o che essa sia dettata da esigenze di tali “strategie”. Ma il fenomeno è ancor più rilevante e le conseguenze ne sono ancor più gravi, perché questa finalità è inconfessata riguardo a tutti ed ognuno dei comportamenti pratici che ne derivano ed è, invece, confessabile e confessata solo in astratto e con elucubrazioni secondo le quali è la “verità” che è ricavabile da tale “contesto” della finalità della giustizia.
A questa “giustizia dei fini” o “delle strategie”, fa corona una serie di altre anomalie che caratterizzano pure la giustizia italiana e che ne discordono. Così la grottesca assurdità della pretesa obbligatorietà dell’azione penale che, stabilita senza l’indicazione delle condizioni e delle situazioni che dovrebbero far scattare l’obbligo di procedere, si trasforma in arbitrarietà ed attribuisce al P.M. un generico “potere ispettivo” alla ricerca di fatti su cui indagare, che è il sistema migliore per garantire al P.M. la facoltà di operare per la “promozione sociale”, magari necessariamente destinando, invece, al binario morto della prescrizione e rapporti su manifeste violazioni della legge penale altri procedimenti per reati ben definiti e, magari, documentati.
La giustizia così “deviata” è necessariamente una giustizia ingiusta. Già il fatto che esistano “campagne” contro questa o quella forma di criminalità e, comunque,si manifesti il potere delle Procure di andare alla ricerca di ipotetici casi di reato (indagare per trovare qualcosa su cui indagare) tralasciando, per necessità conseguente, di agire a seguito di denuncie etc., con una “selezione” del lavoro da svolgere in funzione della “promozione sociale” che al momento appaia al magistrato (e non al legislatore) quella meritevole di attenzione a scapito delle altre, rappresenta una grave ingiustizia che viola euguaglianza e parità tra i cittadini.
Ma più grave è l’altro corollario. Per una giustizia protesa al conseguimento di obiettivi “generali”, che si muove secondo “strategie” di lotta anziché secondo il più modesto ma assai più certo e sicuro binario della “troppo restrittiva” applicazione della legge e dell’accertamento della verità al di là di ogni ragionevole dubbio, l’errore nel singolo giudizio, che per il giudice “tradizionalista” e “passatista“ equivale a lesione di “tutta“ la giustizia e assurge a significato di male assoluto, per la “giustizia di lotta” o “giustizia dei risultati strategici” è un costo come un altro da pagare, che non può paralizzare la coscienza del magistrato. “Purchè il reo non scampi, il giusto péra” è proposizione in sé assurda ed orrenda, che per il magistrato “lottatore”, che persegue essenzialmente la vittoria sulla criminalità, e la “promozione sociale” e per la sua “legalità” (volutamente usiamo a sproposito questo termine, per adottarlo nel significato grottesco ad esso attribuito dai “professionisti dell’antimafia”) è criterio ovvio ed addirittura irrinunciabile per tali “campagne”! Di questa connessione tra la “devianza” della giustizia e la sua obiettiva ingiustizia e potenziale predisposizione all’errore ci siamo occupati a lungo ed in modo più esteso ed approfondito (ad esempio con il libro “La fabbrica degli errori” - manuale di patologia giudiziaria) Koiné nuove edizioni 2006).
Abbastanza per renderci conto che molto altro c’è sicuramente da aggiungere ed approfondire e che non c’è possibilità alcuna di avere nel nostro Paese una giustizia diversa, più giusta, più efficiente, più certa, se non si parte dalla constatazione di questa sua “deviazione”.
Fenomeno che non è solo italiano, ma che in Italia è incomparabilmente più grave che altrove ed addirittura caricaturale e grottesco.
Eppure, mentre in altri Paesi il fenomeno viene percepito e suscita allarme, da noi sembra che solo parlare di ciò sia reato di offesa alla Magistratura, lesa maestà.
Una colpa che non esitiamo ad assumerci.
La giustizia italiana non è “deviata” perché un numero più o meno rilevante e significativo di procedimenti, di inchieste, di sentenze e di provvedimenti vari è adattato ingiustamente, a causa di scopi e finalità perversi di chi li promuove ed adotta. Né può dirsi deviata per uno scadimento della moralità del decidere che si sia manifestato in molti magistrati.
La “devianza” della giustizia italiana è fenomeno assai più complesso, riconducibile al prevalere, in verità, non solo tra i magistrati, di teorie circa i compiti ed i fini della giurisdizione.
“Deviata”, si può dire, è anzitutto la cultura cui si rifà tale teoria e tutto l’atteggiamento della magistratura (come corpo e corporazione, nelle tendenze in essa prevalenti) ma anche in una parte rilevante della classe politica e degli ambienti intellettuali.
D’altra parte a percepire tali atteggiamenti ed a constatare il perseguimento di tali finalità, non siamo solo noi. Andate a consultare la rivista della corrente Magistratura Democratica degli anni ’70 e vi troverete teorizzato l’”uso alternativo della giustizia” ed altre apparentemente meno esplicite e conducenti proposizioni. Se ne parla meno oggi, che quella corrente di pensiero della magistratura associata può considerarsi egemone. Se ne parla di meno, perché, in effetti, quelle teorie hanno avuto realizzazione, essendo state più o meno consciamente accettate dalla magistratura ed anche dalle altre istituzioni dello Stato.
Compito della giustizia, dei giudici, dell’apparato giudiziario è, nello Stato moderno, quello di applicare le leggi (che spetta al potere legislativo emanare) ed accertare i fatti che ne condizionano l’applicazione. Spetta al potere esecutivo amministrare la cosa pubblica compiendo quelle scelte che sono necessarie per realizzare opere e servizi necessari alla collettività, etc.
Ora secondo la teorizzazione cui si è fatto cenno, ma ancor più, per quel che a noi più interessa, nell’atteggiamento e nella realtà della giustizia italiana, il compito ad essa assegnato secondo la classica divisione dei poteri cui sopra abbiamo fatto cenno, è considerato “riduttivo”. Sostengono i magistrati, che potremmo definire di scuola “pangiurisdizionalista”, che compito della giustizia e della loro corporazione che l’amministra, sia quello di perseguire “obiettivi di promozione sociale”. In particolare, per ciò che riguarda specificamente la giustizia penale, essi sostengono che compito della giustizia sia quello di condurre “campagne” di volta in volta contro varie forme di criminalità (terrorismo, mafia, corruzione, pedofilia, corruzione sportiva, abusivismo edilizio etc. etc.) per “sconfiggere” tali manifestazioni di patologia sociale. Interpretazione, applicazione della legge, accertamento dei fatti oltre ogni ragionevole dubbio per poter rettamente applicare le leggi sono in questa ottica, anziché un obiettivo primario ed esclusivo, un “passaggio”, più o meno un dato strumentale delle operazioni “strategiche” da realizzare con la legge, ma anche altre.
Naturalmente nessun magistrato ammetterà esplicitamente che la strumentalità di una qualsiasi sentenza o che essa sia dettata da esigenze di tali “strategie”. Ma il fenomeno è ancor più rilevante e le conseguenze ne sono ancor più gravi, perché questa finalità è inconfessata riguardo a tutti ed ognuno dei comportamenti pratici che ne derivano ed è, invece, confessabile e confessata solo in astratto e con elucubrazioni secondo le quali è la “verità” che è ricavabile da tale “contesto” della finalità della giustizia.
A questa “giustizia dei fini” o “delle strategie”, fa corona una serie di altre anomalie che caratterizzano pure la giustizia italiana e che ne discordono. Così la grottesca assurdità della pretesa obbligatorietà dell’azione penale che, stabilita senza l’indicazione delle condizioni e delle situazioni che dovrebbero far scattare l’obbligo di procedere, si trasforma in arbitrarietà ed attribuisce al P.M. un generico “potere ispettivo” alla ricerca di fatti su cui indagare, che è il sistema migliore per garantire al P.M. la facoltà di operare per la “promozione sociale”, magari necessariamente destinando, invece, al binario morto della prescrizione e rapporti su manifeste violazioni della legge penale altri procedimenti per reati ben definiti e, magari, documentati.
La giustizia così “deviata” è necessariamente una giustizia ingiusta. Già il fatto che esistano “campagne” contro questa o quella forma di criminalità e, comunque,si manifesti il potere delle Procure di andare alla ricerca di ipotetici casi di reato (indagare per trovare qualcosa su cui indagare) tralasciando, per necessità conseguente, di agire a seguito di denuncie etc., con una “selezione” del lavoro da svolgere in funzione della “promozione sociale” che al momento appaia al magistrato (e non al legislatore) quella meritevole di attenzione a scapito delle altre, rappresenta una grave ingiustizia che viola euguaglianza e parità tra i cittadini.
Ma più grave è l’altro corollario. Per una giustizia protesa al conseguimento di obiettivi “generali”, che si muove secondo “strategie” di lotta anziché secondo il più modesto ma assai più certo e sicuro binario della “troppo restrittiva” applicazione della legge e dell’accertamento della verità al di là di ogni ragionevole dubbio, l’errore nel singolo giudizio, che per il giudice “tradizionalista” e “passatista“ equivale a lesione di “tutta“ la giustizia e assurge a significato di male assoluto, per la “giustizia di lotta” o “giustizia dei risultati strategici” è un costo come un altro da pagare, che non può paralizzare la coscienza del magistrato. “Purchè il reo non scampi, il giusto péra” è proposizione in sé assurda ed orrenda, che per il magistrato “lottatore”, che persegue essenzialmente la vittoria sulla criminalità, e la “promozione sociale” e per la sua “legalità” (volutamente usiamo a sproposito questo termine, per adottarlo nel significato grottesco ad esso attribuito dai “professionisti dell’antimafia”) è criterio ovvio ed addirittura irrinunciabile per tali “campagne”! Di questa connessione tra la “devianza” della giustizia e la sua obiettiva ingiustizia e potenziale predisposizione all’errore ci siamo occupati a lungo ed in modo più esteso ed approfondito (ad esempio con il libro “La fabbrica degli errori” - manuale di patologia giudiziaria) Koiné nuove edizioni 2006).
Abbastanza per renderci conto che molto altro c’è sicuramente da aggiungere ed approfondire e che non c’è possibilità alcuna di avere nel nostro Paese una giustizia diversa, più giusta, più efficiente, più certa, se non si parte dalla constatazione di questa sua “deviazione”.
Fenomeno che non è solo italiano, ma che in Italia è incomparabilmente più grave che altrove ed addirittura caricaturale e grottesco.
Eppure, mentre in altri Paesi il fenomeno viene percepito e suscita allarme, da noi sembra che solo parlare di ciò sia reato di offesa alla Magistratura, lesa maestà.
Una colpa che non esitiamo ad assumerci.
la magistratura italiana,dovrebbe essere rispettata,come la stessa rispetta i cittadini.Soprattutto quelli in perenne attesa di giudizio che magari non sanno neppure perchè.Con dei rinvii tra un'udienza e un altra spaventosi.Che annientono l'imputato lo distruggono moralmente,e le famiglie fanno la stessa sorte!
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